“Il bambino autistico è un po’ come un migrante che arriva in un mondo di cui non conosce bene le regole”. Utilizza questa metafora Filippo Muratori, neuropsichiatra infantile e direttore dell’Unità operativa complessa di Psichiatria dello Sviluppo presso la Fondazione ‘Stella Maris’, per restituire un’immagine chiara di come l’autismo possa essere oggi considerato. “Siamo passati dal parlarne solo come disturbo e malattia, a parlare dell’autismo come condizione. Questo è il cambiamento principale avvenuto nel corso degli anni”, sottolinea Muratori in apertura della terza giornata del convegno che celebra mezzo secolo dell’Istituto di Ortofonologia (IdO). E’ un excursus storico il suo, che parte dalle origini dell’autismo per arrivare fino ai giorni nostri. Il neuropsichiatra evidenzia come il cambiamento di prospettiva avvenuto negli anni abbia oggi “una sua manifestazione nel cambiamento radicale dell’epidemiologia di questo disturbo. Uno studio di prevalenza condotto in Italia individua 1 bambino autistico ogni 87- spiega Muratori- ciò vuol dire che non è una forma rara, ma è un qualcosa che può riguardare l’essere umano e in alcuni bambini può diventare un problema perché si ritrovano in un mondo che non è costruito attorno alle loro modalità speciali di funzionamento”. Da qui la metafora del migrante cara al neuropsichiatra.
“Chi si è cimentato con i bambini autistici si è spesso confrontato con l’idea che non abbiano interesse sociale, però questa è una modalità che va superata- spiega Muratori- bisogna, invece, andare a vedere quelle che sono le particolari modalità con cui il bambino cerca di stabilire una relazione sociale”. In questo senso il programma europeo EU-AIMS (Autism Research for Europe) ha “l’obiettivo di cambiare la visione dell’autismo all’interno della società, considerandolo un modo diverso di stare al mondo e di stabilire relazioni sociali. Il programma mira a far rispettare e umanizzare gli interventi che mettiamo in atto con i bambini autistici”, sottolinea il neuropsichiatra.
Tre i punti che Muratori mette in evidenza nel corso del suo intervento: contatto affettivo, eterogeneità dell’autismo e motricità. “Sono tre punti strettamente collegati tra di loro- spiega l’esperto- Il contatto affettivo presuppone una motricità fluida, attraverso cui le parole possono arrivare agli altri. Ognuno di noi ha una propria modalità affettiva- dice- una modalità motoria di relazionarsi con il mondo esterno. Questa diversità viene definita eterogeneità, per cui l’autismo non è una condizione unitaria ma molto diversa, così come molto diversi sono tutti gli umani tra di loro”. Muratori spiega che quando pensiamo alle basi dell’autismo “non possiamo pensare a una sola causa, ci sono fattori genetici e fattori ambientali. Almeno un 50% è dato dall’ambiente e un 50% dal patrimonio genetico. Siamo di fronte a un disturbo molto complesso- precisa il neuropsichiatra- che inizia fin dai primi periodi della vita fetale. Un disturbo che si organizza nel tempo attraverso tutta una serie di periodi critici e che dà luogo a quello che è la base dell’autismo: un disturbo della connettività cerebrale”.
In particolare per quanto riguarda la motricità, Muratori sottolinea l’importanza di approfondire lo studio di questo aspetto come indicatore di rischio per lo sviluppo dell’autismo. “Il movimento nei bambini autistici è spesso ridotto, poco variabile, poco usato in modo intenzionale e poco usato in modo comunicativo. E’ anche importante- evidenzia il neuropsichiatra- che le persone che vengono chiamate ‘neurotipiche’, cioè noi, diventino maggiormente capaci di comprendere la modalità particolare di uso della motricità del bambino autistico. Non è detto, infatti, che questi bambini debbano acquisire il nostro modo di muoverci, siamo noi che dobbiamo capire il loro”.
Sulla scia dell’excursus storico anche l’intervento di Magda Di Renzo, responsabile del servizio Terapie dell’Ido, che per spiegare la visione psicodinamica alla base del modello terapeutico DERBBI – Developmental, Emotional Regulation and Body-Based Intervention, denominato progetto Tartaruga, parte dagli anni ’70. “Allora lo psichiatra Michael Fordham affermava che per i bambini con disturbi dello spettro autistico serviva un approccio speciale, che sapesse coniugare una visione psicodinamica alla possibilità di trovare agganci e usare strumenti comprensibili per il bambino stesso. La visione psicodinamica- sottolinea Di Renzo- ci aiuta a comprendere il funzionamento di questi bambini, che hanno una grande carenza nel costruire la teoria della mente (attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri). Ci aiuta, quindi, a capire come funziona una mente atipica, diversa da quella che siamo soliti immaginare”. La terapeuta spiega che per questo motivo “gli operatori devono avere una ‘teoria della mente’ solida e il più possibile variegata, che consenta loro di costruire un senso, per attribuire significato al comportamento dell’altro. Da qui è partito il nostro percorso- racconta- ci siamo interrogati su cosa fosse primario: primario è quello che viene prima, ovvero la vita che incontriamo dal primo giorno di esistenza. Nell’autismo ci troviamo di fronte a un disturbo complesso, di cui vediamo le caratteristiche fin dal primo giorno di vita”.
Che senso possiamo dare a un comportamento di un bambino con autismo? “Noi operatori dobbiamo aiutare il piccolo a uscire dalle sue idiosincrasie senza violare il suo sé- spiega Di Renzo- Oggi sappiamo che le protoconversazioni (i primi scambi madre-figlio) nell’autismo si impoveriscono, e non perché la mamma non sia in grado di sostenerle, ma perché viene a mancare la reciprocità. Al caregiver primario non arrivano i segnali. Il nostro modello lavora sul come entrare in questo mondo sensoriale- continua la terapeuta- siamo in presenza di ipo sensorialità o iper sensorialità, nel senso che nello stesso bambino in momenti diversi ci possono essere risposte iper sensoriali o ipo sensoriali e dobbiamo essere attenti nel cercare di decifrarle. Oggi- prosegue Di Renzo nel suo intervento al convegno IdO- sappiamo quanto sia fondamentale che nel bambino ci sia la capacità di riparare qualcosa che non è andato. Nei primi anni di vita è necessario che la madre attribuisca al figlio un’intenzione, per iniziare quel dialogo di sperimentazione che è ciò che naturalmente le mamme fanno: il ‘Penso cosa pensi’ permette tutte le trasformazioni” Da qui la psicoanalista ritorna a spiegare il modello DERBBI dell’IdO: “I nostri operatori vanno nei luoghi in cui il bambino vive e manifesta la sua vitalità, proprio per comprenderne il significato e aiutarlo a ripartire nel suo percorso individuale, ma non necessariamente da quell’unico che può essere immaginato per lui”. In tema di sviluppo si parla infatti di percorsi e “ci sono molte strade diverse per arrivare a uno stesso obiettivo. Il modello evolutivo a mediazione corporea- sottolinea la specialista- permette di entrare con i bambini molto piccoli in questa dinamicità e comunicazione corporea, coinvolgendo immediatamente i genitori”.
Per questo l’IdO aiuta i genitori standogli accanto: “Nella terapia diadica c’è il coinvolgimento del corpo del terapeuta quale strumento di terapia- spiega la responsabile dell’IdO- nel senso che il corpo del terapeuta diventa un facilitatore che aiuta madre e/o padre a decodificare alcuni segnali incomprensibili nel bambino, per far ripartire la relazione, consapevoli che alcune caratteristiche rimarranno però tali. Abbracciammo il metodo evolutivo per mettere il bambino nelle condizioni di poter apprendere dall’esperienza e dalla relazionalità”. Di Renzo conclude infine sul benessere di questi bambini: “Puntiamo ad una vita che abbia un suo senso più che a spingere verso delle prestazioni che rischiano di non essere raggiunte e condizionano negativamente la vita di questi piccoli”.